
Lo devo dire, questo fatto del fertility day mi lascia un po’ interdetta.
Tanto per cominciare, un governo, forse, più che proclamare la necessità e l’urgenza di avere figli, dovrebbe mettere le donne in condizioni diventare madri. Dovrebbe agevolare le famiglie, facilitare l’accesso al mercato del lavoro, assicurare la stabilità dell’occupazione, perché i figli costano ed oggi rischiano di diventare un lusso. Dovrebbe garantire le pari opportunità non con lo stupido trucchetto di mettere la zampetta alle “o” facendole diventare “a”, creando quelle aberrazioni grammaticali che sono la ministra, la sindaca, la consigliera e cose del genere. Le pari opportunità non sono i nomi al femminile, ma sono concrete possibilità di conciliare vita privata e lavoro, famiglia e carriera, di scegliere con la stessa libertà e dignità di fare la mamma o l’imprenditrice o tutt’e due.
Questo dovrebbe fare il governo. E a queste considerazioni, così condivise tra i tantissimi critici di questa iniziativa, mi associo anche io. Come pure mi associo a chi dice che la campagna pubblicitaria per il fertility day ha, tra gli altri difetti, una certa mancanza di sensibilità nei confronti di quelle donne che magari, pur volendolo, non sono riuscite ad avere figli. Quelle donne per le quali è uno schiaffo doloroso sentirsi ricordare che la bellezza non ha età, ma la fertilità si. Quelle donne che hanno piena consapevolezza del fatto che la sabbia nella clessidra scorre e loro non ci possono far nulla, perché il loro compagno non c’è più o non c’è mai stato, perché sono sole, perché sono sterili, perché non hanno abbastanza denaro e per mille altre ragioni.
Ecco, tutte queste considerazioni sono giuste. Eppure, le reazioni che questa campagna sta suscitando, soprattutto da parte delle donne, mi lasciano perplessa. Perché è saltata su una folla di donne arrabbiate, rancorose, terrorizzate, quasi, dalla paura che qualcuno voglia riportarle ad una situazione “primitiva”, in cui le donne servivano a stare in casa e a dare figli alla patria, per dare una prole al marito, per far vivere il cognome di famiglia e cose del genere. Ecco, come donne abbiamo mille ragioni storiche per non voler tornare indietro e per rivendicare la libertà di fare delle scelte. Giusto, si, giusto.
Giusto fino a quando questa difesa della libertà di scelta, la “maternità e paternità responsabile”, non si trasforma in una sensazione opprimente, come se l’avere dei figli comportasse necessariamente una perdita di tutto il resto. Come se la massima espressione di libertà fosse poter scegliere di non avere figli. Invece, forse, la massima espressione dovrebbe essere la possibilità di averli. Di poter pensare ad una famiglia sapendo di essere sostenuti da una società che accompagna la maternità e la paternità, da uno Stato che offre supporto alla famiglia, da datori di lavoro che non chiedano, più o meno esplicitamente, se si ha intenzione di avere figli, per regolarsi, poi, di conseguenza sui contratti, assunzioni, retribuzioni.
Questa schiera di donne indignate, però, mi inquieta un po’. Perché accanto alla giusta rivendicazione dei diritti, emerge, a mio avviso, un vero problema culturale, fatto di paure e di libertà forse un po’ fraintese. Perché se oggi si fanno pochi figli è certamente per problemi economici, ma di sicuro non solo per quelli.
Un passo della campagna, particolarmente criticato, dice che la fertilità è un bene comune. E tutti lì a dire che no, l’utero è mio e me lo gestisco io, che sono fatti privati e personali. Il che è vero, ma anche no. Perché la nascita di un bambino, non è semplicemente un fatto privato, ma è un fatto che ha, eccome, rilevanza sociale. Perché il fatto che oggi non si facciano più figli è una cosa che incide sulla nostra società, sulla scuola, sullo Stato, sulla sanità.
La campagna del Ministero, è vero, è un po’ maldestra. Ma non è vero che è tutto da buttar via. La verità è che il Ministero ha provato a parlare del “prestigio” della maternità, di dimensione sociale, di educazione e protezione della fertilità. Ha palato di sacrifici per essere genitori, ha ricordato che la procreazione medicalmente assistita non significa che si possa procreare per tutta la vita; ha detto di voler fare una campagna di prevenzione perché l’infertilità è un problema di salute pubblica.
La verità è che il Ministero ha parlato di cose fuori moda e scomode. La verità è che siamo diventati una società troppo individualista, che ha perso il senso della comunità e dell’essere tutti parte di un bene comune; la verità è che la parità non c’è affatto e che le donne devono ancora lottare per veder considerata la propria professionalità e non il proprio aspetto fisico; la verità è che alle donne viene chiesto troppo: di essere belle, palestrate, truccate, pettinate; di essere professioniste eccellenti e di essere sexy; di essere competitive e senza cellulite; devono avere prestazioni da uomo e devono essere pure fighe. Ora, è come se qualcuno venisse a dire: ricordatevi che dovete pure figliare. E allora no, basta, forse chiedete troppo.
Ecco, la reazione mi è sembrata, in alcuni casi, un po’ questa. E allora, come, nei fatti, la società chiede alle donne di non rompere con questa storia di conciliare famiglia e lavoro, vita privata e professione, ora le donne chiedono di non rompere con questa storia dei figli. Perché se lo Stato non è in grado di supportare la famiglia e la maternità, se la società pretende così tanto dagli individui e poi, fondamentalmente, li lascia soli, allora si che la maternità è un fatto esclusivamente privato. E non un bene comune.
Forse c’è bisogno che non (solo) il Ministero, m
a la società tutta, ricominci a dire, nei fatti e non solo con le parole, che avere figli è bello; che se avrai un figlio non sarai sola, ma la comunità ti sosterrà attraverso politiche del lavoro, della famiglia; che il tuo avere un figlio è una gioia per tutti, e non solo un fiocco rosa o azzurro sulla porta di casa tua; che se avrai un figlio non dovrai temere per il tuo lavoro e la tua carriera, perché hai fatto un dono alla società tutta e la società tutta, a partire dal tuo datore di lavoro, saprà dirti grazie. C’è bisogno di una società che ti aiuti a scegliere davvero, che ti aiuti se vuoi diventare madre, che ti rispetti e ti supporti se decidi di non avere figli.
E forse c’è bisogno che non venga tutto ridicolizzato con battutine a sfondo sessuale, c’è bisogno che le donne non debbano sempre arrabbiarsi e lottare perché si sentono minacciate da una campagna che, in realtà, tocca dei nervi scoperti e, dunque, nel suo essere maldestra, ha fatto centro. C’è bisono di donne capaci di accoglienza e di comprensione. Di donne madri, “madri” anche se decidono di non avere figli.