…Ma io devo andare in bagno. #oancheno

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Torno anche oggi a scrivere del terremoto. O meglio: di quello che si sta già trasformando in un grande circo mediatico. Ancora una volta mi scontro col paradosso di dover usare parole per combattere le troppe parole… ma tant’è.

E’ difficile tacere di fronte ai tanti link postati senza criterio, in cui animali e persone sono sullo stesso piano, le denunce sociali sono fatte senza alcun approfondimento, in cui si fa un tutt’uno di migranti, rifugiati, sfollati per sollevare polemiche, che, francamente, sono del tutto inutili, soprattutto in questo momento, soprattutto quando sono figlie di ignoranza e superficialità.

E poi arrivano i giornalisti. Un mestiere difficile, da sempre, e oggi di più. Perché bisogna essere bravi, capaci, preparati; bisogna avere tenacia e coraggio; bisogna studiare e approfondire, verificare le fonti, essere sicuri di ciò che si dice e si scrive. E tutto questo deve essere fatto in tempi velocissimi, col fiato sul collo e le pressioni del direttore, dell’editore, dei propri competitor, della rete, dei social network, di una concorrenza spietata; a volte con una situazione lavorativa estremamente precaria, che mette tensione, toglie forse lucidità e serenità, e spinge alla ricerca dello scoop e dell’unicità a tutti i costi.

Valanghe di immagini e di notizie, pubblicate con foga, tante, così tante, che se all’inizio ti fanno sentire da vicino la tragicità di quello che sta accadendo, poi rischiano di appiattirsi l’una sull’altra e chi le guarda, sebbene inconsapevolmente, comincia a perdere la percezione del confine sottile tra realtà e finzione, tra video reali e film, tra documentario e videogioco. E rischia persino di abituarsi. A poco più di 24 ore dal sisma abbiamo visto tutti migliaia di foto, letto migliaia di parole e tutto rischia di confondersi in un nuovo cumulo di macerie confuse.

Ecco allora che si cercano immagini sempre più forti.

Studio Aperto pensa bene di intervistare una donna ancora intrappolata sotto la macerie. E inizia un dialogo surreale nel quale l’intervistatore cerca maldestramente di rassicurare la poverina, la quale, a sua volta, dice solo: “ma io veramente devo andare in bagno”. Lei non dice: devo fare pipì. Dice: “devo andare in bagno”. Come se potesse muoversi e alzarsi, come se potesse scegliere. Lo dice con pudore, con un’ingenuità e, al tempo stesso, un’eleganza che commuovono e inteneriscono. E che l’intervistatore non coglie. Così arriva il consiglio, geniale, e pubblico: “se le scappa la pipì, la faccia. Lo so che è brutto dirlo, ma la faccia. Io adesso mi allontano un attimino e lei fa la pipì”.

Ecco, è ovvio che, in un contesto simile, nessuno starà lì a pensare se le vittime si sono fatte addosso i propri bisogni o li hanno trattenuti. L’importante è che escano vivi. Eppure, le vittime ci pensano, eccome. Perché stare sotto le macerie non significa essere diventati pupazzi inerti. Chi sta sotto le macerie è una persona con una sua dignità. Che certamente è perfettamente consapevole che la cosa più importante è salvare la vita. Ma che forse si vergogna dei pantaloni bagnati di pipì o dell’aspetto stravolto, che non vuole sentirsi un numero, che magari era andato dal parrucchiere proprio il giorno prima, che desidererebbe farsi una doccia. Stare sotto le macerie non significa perdere il pudore, la dignità, trasformarsi da “persona” in “vittima” del terremoto. Essere estratti dalle macerie non significa trasformarsi in “un” malato, in “uno sfollato”. C’è un nome, un cognome, una storia, un proprio decoro personale che va rispettato e custodito. E per quanto la gravità della situazione richieda interventi urgenti, immediati e lasci poco spazio ad altro, un po’ di rispetto dovrebbe essere mantenuto.

Perciò, quell’intervista si poteva evitare. Chissà se quella donna ha capito con chi stava parlando e chissà se ha capito che una telecamera stava riprendendo i brandelli del suo corpo che si potevano intravedere tra le macerie.

Qualcuno avrebbe dovuto fermare per lo meno la messa in onda dell’intervista. Avrebbe dovuto dire “o anche no”. Come ha fatto, per fortuna, Enrico Mentana, su La 7, gelando la sua inviata che proponeva di mandare in onda la foto di una famiglia morta inviata poco prima alla redazione. O anche no. Non si manda in onda. Perché il dolore ha una sua dignità, di fronte alla quale inchinarsi e tacere.