DJ Fabo è morto. E sembra quasi che tutti dicano: finalmente! Perché ha realizzato ciò che voleva, ha raggiunto il suo scopo.
Un mare di parole, in questi giorni, di fronte ad un caso che, invece, mi lascia impietrita. Un mare di parole, tante, troppe, urlate, confuse, superficiali, un mare di parole, nelle quali, sinora, è comparsa solo una zattera a cui aggrapparsi per non annegare in questa tempesta di emozioni: è la bellissima lettera di don Maurizio Patriciello, pubblicata su Avvenire, perla da custodire in questa triste vicenda.
Don Maurizio, senza retorica, senza frasi fatte, senza giudicare, ma senza arretrare di un passo di fronte al valore della vita, ci ricorda che Fabo era, è una persona e che da quando non c’è lui siamo tutti più poveri, più soli. Siamo tutti più inermi, più indifesi, più spaventati perché, se mai ce ne fosse ancora bisogno, abbiamo dovuto ricordarci che la vita è fragile, dolorosa, faticosa.
Si è detto “ognuno deve essere libero di scegliere per sé”. Un’affermazione vera e giusta, per tante cose, ma figlia di una società individualista, nella quale, forse, siamo troppo soli e ci dimentichiamo che, invece, qualunque nostra scelta non riguarda mai solo noi, ma tocca, aiuta, ferisce, dà speranza, apre, chiude, fa crescere o morire il nostro mondo, le persone che ci circondano, la nostra famiglia, la nostra città, la nostra società. Non siamo individui. Siamo persone, inserite in un tessuto di relazioni, in una comunità e non è vero che ciò che decidiamo di noi riguarda noi e basta. Siamo responsabili degli altri e del mondo che costruiamo, e lo siamo in ogni situazione di vita e di salute.
E’ questo che Matteo Nassigh, disabile gravissimo, che non parla, non cammina, non fa nulla da solo a causa di un’asfissia alla nascita, aveva provato a ricordare a Fabo, supplicandolo (in una lettera che quasi solo il quotidiano Avvenire ha pubblicato) di non morire. E con la sua lettera, ci ricorda che per un Fabo che sceglie di morire, ci sono mille altri Matteo che ogni giorno lottano, insieme alle loro famiglie, nonostante la loro disabilità, nonostante il dolore, nonostante un corpo che impedisce di esprimersi, muoversi, parlare. E lottano per veder riconosciuto il loro diritto a vivere in maniera dignitosa.
Non c’è una classifica su chi è più bravo o coraggioso, non c’è un premio che spetta al vincitore. C’è però da chiedersi verso che direzione andare. Se vogliamo promuovere la vita, e riconoscerne la dignità e il valore in qualunque situazione o se, invece, vogliamo introdurre dei sottili criteri sulla base dei quali decidere quale vita valga la pena vivere e quale no. Il più grande pericolo è che si insinui la convinzione che non tutte le vite abbiano lo stesso valore. E che chi si dovesse trovare nella concreta situazione e possibilità di scegliere se vivere o morire, si sentisse, in realtà, messo di fronte all’opzione di togliere il disturbo, perché, in fondo, quella sua vita malata, priva di bellezza e vigore, tutto sommato non vale granché e, anzi, è un peso per la famiglia e un pesante costo economico per la società (perché, diciamoci anche questo, i disabili costano, i malati costano, l’assistenza costa e sopprimere potrebbe essere economicamente molto più conveniente che lasciar vivere).
Stiamo attenti quando diciamo che ognuno deve essere libero di scegliere, perché nella concretezza dei casi, forse, la libertà è tanto difficile, tanto poco libera, tanto indirizzata. Se tutti i media parlano di Fabo e così pochi parlano dei mille Matteo in lotta per la vita, è davvero sicuro che la scelta sia libera? O magari il tema di discussione dominante, quello emozionalmente più impattante, non ci avrà influenzato a dare dei giudizi su quale vita valga la pena di essere vissuta?
E a tutti quelli che dicono “Io in quelle condizioni non ci potrei vivere mai”, dico: siete sicuri? Ognuno di noi ha una diversa percezione del dolore e una diversa soglia di sopportazione. Ma come fate a sapere che idea avrete della vita nel momento in cui starete male? Magari non potrete più camminare, parlare, muovervi e proprio perché la vita non è quella di prima, allora la apprezzerete ancora di più. E ve la vorrete tenere stretta, quella vita che avete rischiato di perdere.
Non c’è chi vince, non c’è chi perde, ma c’è Fabo e c’è Matteo ed entrambi ci chiedono, forse, non le mille parole di questi giorni, ma una riflessione più matura e pacata. Di fronte a tanto dolore, di fronte alla scelta tra vita e morte, non si giudica, e, come Mosé di fronte al roveto ardente, ci si toglie i sandali, ci si prostra, si resta in silenzio.
A Fabo diciamo A-Dio, sperando di incontrarlo un giorno dall’altra parte, poterlo abbracciare, dirgli quanto la sua scelta ci abbia toccato e addolorato, e forse solo davanti a Dio, insieme a lui, avremo la luce giusta per vedere le cose.